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Fallimento società: contributi non versati ammissibili al passivo


Con la sentenza Cass. Lavoro n. 23426 del 17 novembre 2016 i giudici hanno stabilito che il lavoratore può insinuarsi nel fallimento anche per la quota di contributi previdenziali che non sarebbero stati versati dal datore di lavoro. Pertanto, qualora il datore di lavoro non abbia versato la retribuzione (o lo abbia fatto in ritardo), ovvero non abbia effettuato i versamenti contributivi, il lavoratore può chiedere direttamente l'ammissione al passivo sia per quanto concerne la retribuzione sia per quanto attiene la quota dei contributi previdenziali.

Il caso

Il caso su cui si è occupata la Suprema Corte comincia con la richiesta di un lavoratore di essere ammesso al passivo del fallimento di un'azienda in liquidazione (il datore di lavoro), verso la quale vantava un credito a titolo di retribuzione non percepita.

Ebbene, il giudice ha stabilito che il credito del lavoratore nei confronti dell'azienda dovesse essere ammesso non solamente per la retribuzione, quanto anche per la quota dovuta a seguito del mancato versamento dei contributi previdenziali da parte dello stesso datore di lavoro. Il giudice di primo grado ha definito altresì che in mancanza di prova di domande di insinuazione al passivo da parte dell'Inps (che secondo la tesi dell'azienda è l'unico legittimato a insinuarsi al passivo per i contributi non versati), andava comunque salvaguardato il diritto del lavoratore all'integrità della retribuzione, potendo egli richiedere che la retribuzione gli fosse riconosciuta, in sede concorsuale, al lordo delle ritenute previdenziali.

L'azienda ha tuttavia ricorso in Cassazione lamentando - tra gli altri punti - che solamente l'Inps è legittimato a richiedere l'ammissione al passivo in conseguenza dell'omissione contributiva da parte del datore di lavoro dichiarato fallito, aggiungendo poi che il soggetto attivo dell'obbligazione contributiva gravante sul datore di lavoro è solo l'ente previdenziale non già il lavoratore.

La decisione della Cassazione

I giudici della Suprema Corte ricordano che l'obbligo contributivo impone al datore di lavoro il pagamento in favore dell'ente previdenziale dell'importo a titolo di contributi previdenziali a beneficio dei lavoratori suoi dipendenti. I contributi previdenziali - aggiungono inoltre i giudizi - sono in parte dovuti dal datore di lavoro e in parte dal lavoratore, sebbene l'obbligo di versamento sia a carico del datore di lavoro, stabilendo il codice civile, all'art. 2115, che "l'imprenditore è responsabile del versamento del contributo, anche per la parte che è a carico del prestatore di lavoro, salvo il diritto di rivalsa secondo le leggi speciali".

Gli ermellini specificano quindi che l'ammissione al passivo sia possibile anche per la quota dei contributi previdenziali, poichè tale soluzione è ben rispondente al principio dell'integrità della retribuzione, che altrimenti verrebbe frustrata senza giustificazione. I giudici specificano infine che è assolutamente escluso che il curatore - se l'Inps non si è insinuato al passivo - possa trattenere le somme di cui sopra attraverso accantonamenti in prevenzione.


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