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Se procedura fallimento è troppo lunga scatta rimborso


Una procedura di fallimento iniziata nel 1993 e terminata nel 2010. Ben 17 anni per un iter che si è evidentemente protratto oltre i termini ritenuti ragionevoli, e che ha fatto scattare un rimborso, come valutato dalla sentenza 13819/2016 della Corte di Cassazione.

La vicenda

La vicenda, come anticipato, prende il via nel lontano 1993 e si conclude solamente nel 2010. Una eternità, tanto che le circa 200 persone che sono coinvolte all'interno del procedimento in qualità di creditori insinuati, decide di non poter sopportare tale enorme percorso giudiziario. Di qui, la vicenda finisce rapidamente sulle scrivanie della Corte territoriale, che stima congrua una durata di 10 anni (proprio in virtù dell'elevato numero di creditori insinuatosi) e calcola come eccedente la differenza di 7 anni, accogliendo la domanda e condannando il ministero al pagamento, in favore di ogni ricorrente, della somma di 3,5 mila euro (ovvero, 500 euro per anno). Il ristoro patrimoniale non sembra tuttavia dare soddisfazione ai creditori, che scelgono infatti di ricorrere in Cassazione.

Cassazione

In Cassazione, con controricorso del ministero della Giustizia (che propone ricorso incidentale, con controricorso - a sua volta - dei ricorrenti), i giudici accolgono una parte dei motivi di lamentela, come quello della violazione degli artt. 2, comma 2, legge Pinto, 24 e 111 Cost., 6, par. l, e 13 CEDU. Per la VI Sezione Civile la doglianza di cui sopra è del tutto fondata, ricordando come in tema di equa riparazione per la violazione del termine di durata ragionevole del processo, la durata delle procedure fallimentari possa essere ricondotta alle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui una procedura di media complessità dovrebbe durare cinque anni, e una procedura di elevata complessità (come quella nella fattispecie, a causa dell'elevato numero dei creditori) dovrebbe durare comunque non più di sette anni.

Ulteriormente, nel ricorso incidentale il ministero deduce la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2 della legge Pinto e 75 c.p.c., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., poichè il decreto che è stato impugnato ha assunto quale dies a quo di durata la sentenza dichiarativa di fallimento e non la data, necessariamente successiva, di presentazione delle istanze di ammissione allo stato passivo.

Accogliendo e condividendo la doglianza, la VI Sezione Civile ha rilevato come "in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata di una procedura fallimentare, lo stesso giudice di legittimità si è orientato nel senso che la durata del procedimento di insinuazione tardiva va determinata avendo riguardo al tempo intercorso tra la proposizione dell'istanza di cui all'art. 101 Legge fall., con cui il creditore diviene parte della procedura, ed il provvedimento di ammissione del credito, non potendosi cumulare con tale periodo quello precedente di svolgimento della procedura concorsuale, al quale il creditore è rimasto estraneo".

Il principio risulta così estensibile - afferma la Sezione - alla domanda di insinuazione tempestiva, poichè in nulla sono differenziate le due fattispecie ai fini del corretto computo della durata del procedimento.


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