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Sentenza fallimento condizione punibilità di bancarotta fraudolenta


La Quinta sezione penale di Cassazione apporta un nuovo importante tassello nella realizzazione del mosaico che consente una completa interpretazione del tema della dichiarazione del fallimento e delle relazioni tra tale sentenza e la punibilità del reato di bancarotta fraudolenta, affermando che la sentenza con la quale viene dichiarato – appunto – il fallimento costituisce condizione obiettiva di punibilità penale.

Condizione obiettiva di punibilità

Nella fattispecie in esame, la Suprema Corte doveva esprimersi su una annosa questione che da tempo è elemento di dibattito giurisprudenziale: la sentenza dichiarativa di fallimento deve essere qualificata, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo, come elemento costitutivo del reato, o come condizione obiettiva di punibilità?

In tal senso, il comunicato relativo a una recente sentenza ricorda in maniera chiara che “la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce condizione obiettiva di punibilità. Ciò, peraltro, comporta la conseguenza che il termine di prescrizione decorre, ai sensi dell’art. 158 c.p. dalla data della predetta sentenza e che la competenza territoriale appartiene al giudice del luogo nel quale si è verificata tale condizione”.

Bancarotta fraudolenta e semplice

A margine di quanto sopra, si aprono pertanto interessanti valutazioni per quanto concerne gli effetti delle condotte fraudolente, documentali o preferenziali, che l’imprenditore può porre in essere prima del fallimento, e a cui la legge fallimentare collega una rilevanza penale solamente al verificarsi del fallimento.

Si prenda dunque in considerazione quanto previsto dall’art. 216 del codice penale, rubricato “Bancarotta fraudolenta”, laddove si ricorda come “è punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che: 1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti; 2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (…)”.

E, ulteriormente, si dia uno sguardo a quanto previsto dall’art. 217 dello stesso codice, rubricato “Bancarotta semplice”, che evidenzia che “è punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente: 1) ha fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica; 2) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti; 3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento; 4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa; 5) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare. La stessa pena si applica al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta”.


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