In caso di fallimento, il peculato può essere integrato dalla condotta fraudolenta del curatore- Cassazione penale , sez. II, sentenza 26.01.2010 n° 3327
In merito a tale sentenza, il curatore accedeva ai conti correnti del fallimento grazie dell'autorizzazione del giudice delegato, ricevendo il denaro dalla banca e distribuendo le somme ai creditori, trattenendo gli importi ulteriori, frutto della falsificazione.
Riprendiamo la normativa in materia di peculato. L’art. 314 c.p. prevede che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, sia in possesso o abbia la disponibilità delle cose altrui per ragioni di ufficio.
Il delitto di peculato interviene nel momento in cui il soggetto attivo dà al denaro o alla cosa mobile, oggetto della condotta, una destinazione diversa da quella prevista. Ovvero, questi beni andranno a soddisfare interessi privati. E per quanto concerne l’abuso d’ufficio? E’ un delitto meno grave, in quanto gli scopi per cui denaro o cose vengono distratte sono pur sempre dirette a realizzare uno scopo pubblico.
Analizziamo ora la nozione di possesso. Essa non è solo comprensiva della detenzione materiale della cosa, ma anche della disponibilità giuridica. Infatti, chi agisce deve, mediante un atto dispositivo di propria competenza, avere la disposizione del denaro e conseguire quanto è oggetto di appropriazione. Ciò che cosa vuol dire? L 'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale, che si comporta come se fosse il reale proprietario di quei beni dei quali ha il possesso in virtù del proprio ufficio o incarico, e l’appropriazione dei beni, possono essere realizzate anche attraverso la disposizione giuridica dei beni, autonoma e priva di vincoli, i quali sono sì detenuti di fatto ma dovrebbero essere non disponibili in virtù della normativa sussistente.
La Cassazione, quindi, conclude che il professionista, quando si appropria di denaro di cui ha la disponibilità come curatore, commette reato di peculato e non già di truffa aggravata.