Legge Fallimentare

Legge fallimentare in Italia


In Italia la normativa di base in tema di fallimento è contenuta nel Regio Decreto 16 Marzo 1942 n.267 il cui testo è stato emendato solo nel 2006. La legge de qua è palesemente frutto di una mentalità contaminata da idee fasciste e ciò risulta evidente nella durezza di alcuni provvedimenti a danno dell’imprenditore fallito.

Le conseguenze del fallimento non avevano infatti solo rivolti prettamente giuridici ma anche sociali e morali: la persona protagonista del procedimento ad esempio veniva, fino appunto a quattro anni fa, privata del diritto di voto, sia attivo che passivo, e il suo nome veniva iscritto in un registro pubblico ad hoc.

L’effetto giuridico fondamentale del fallimento, che viene invece conservato anche nel D.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 è quello di un trasferimento della proprietà: i beni del fallito passano infatti sotto la gestione degli organi addetti alla procedura fallimentare. Da questa prospettiva assume un ruolo centrale la figura del curatore, oltre al giudice delegato e al comitato dei creditori. Qualora i beni disponibili non siano immediatamente sufficienti a soddisfare tutti i debiti, la procedura è soggetta ad essere eventualmente riaperta non appena altri beni entrino nella sfera di proprietà del fallito, ad esempio se quest’ultimo tenti di aprire un’altra società.

Prevale dunque l’esigenza di soddisfazione del debito e di adempimento delle obbligazioni. Se da un lato la ratio legis è intuibile, dall’altro non si può non convenire sul fatto che in concreto si rende proibitiva per l’imprenditore in questione la possibilità di creare nuova ricchezza.


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