La Legge Fallimentare subordina alla sussistenza di alcuni requisiti l’assoggettabilità di un determinato soggetto giuridico a procedura fallimentare.
Non tutti i soggetti giuridici possono essere sottoposti a procedura fallimentare. Il r.d. n. 267 del 16 marzo 1942 prevede, infatti, tutta una serie di rigidi requisiti oggettivi e soggettivi che devono sussistere affinchè un imprenditore possa essere dichiarato fallito. In particolare, tali requisiti, sono specificamente individuati dagli art. 1 e 5 e subordinano l’assoggettamento al fallimento al concorso di precisi requisiti soggettivi ed oggettivi, individuati, rispettivamente, nell’art. 1 e nell’art. 5 della Legge Fallimentare. Tale normativa ha subito una serie di modifiche legislative che hanno influito, in maniera rilevante, sulla determinazione dei suindicati requisiti. L'art. 1, 1° comma, della L.F., stabilisce che possono essere assoggettati a queste procedure concorsuali gli imprenditori che esercitano, in maniera effettiva, un'attività commerciale. Sono dunque esclusi gli imprenditori che esercitano essenzialmente attività agricola, così come i piccoli imprenditori e gli Enti Pubblici. Molto discussa è stata, nel corso dei numerosi interventi di modifica legislativi, la figura del "piccolo imprenditore". Esaminiamo com'è cambiata la sua definizione dopo la riforma del 2006.
Il fallimento e la definizione di "piccolo imprenditore"
La legge di riforma è intervenuta, in maniera particolare, sul concetto di "piccolo imprenditore". E' il codice civile e, precisamente, l'art. 2083 che definisce questa categoria stabilendo: “sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. Si tratta di una precisazione molto importante poichè, come abbiamo appena scritto, la categoria dei piccoli imprenditori non può essere assoggettata a procedura fallimentare. La ratio è chiara: il piccolo imprenditore gestisce un'attività di impresa molto limitata. Normalmente le relazioni commerciali e contrattuali intessute dal piccolo imprenditore con i suoi clienti e fornitori sono talmente limitate da non rendere così indispensabile ed urgente la tutela della "par condicio creditorum". La riforma del 2006 ha messo così un punto definitivo all'annosa questione relativa all'interpretazione e alla definizione della categoria di "piccolo imprenditore". Il Legislatore del 2006 ha fatto terminare la lunga querelle di natura interpretativa che ha infiammato - nel corso degli anni - il dibattito giurisprudenziale. Prima della riforma, infatti, vi era una duplice definizione di "piccolo imprenditore". Da un lato vi era quella formulata dall'art. 2083 c.c. e dall’altro la definizione espressa dall’art. 1 della L.F. del 1942. Mentre il codice civile individuava questa categoria prendendo a riferimento il lavoro proprio del piccolo imprenditore e della sua famiglia, la Legge Fallimentare guardava alla "piccola impresa" in un'ottica diversa. Tale normativa, infatti, escludeva dalla procedura fallimentare l'imprenditore che avesse "un reddito inferiore al minimo imponibile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile e un capitale investito inferiore a 900.000 lire (euro 464,81)". Quando l'imposta di ricchezza è stata soppressa e quando è stata dichiarata l'incostituzionalità dell'art. 1 della L.F., il Legislatore ha provveduto a definire, in maniera chiara ed univoca, la categoria del "piccolo imprenditore" con la nuova formulazione dell'art. 2083 del codice civile.
A ciò si aggiunga che l'art. 1 della Legge Fallimentare provvede ad esonerare da procedura fallimentare e dal concordato preventivo quegli imprenditori commerciali (non si parla più di "piccolo imprenditore") che abbiamo, congiuntamente, una serie di requisiti. In particolare, ai sensi dell'art. 1 L.F., sono esclusi da procedura fallimentare quegli imprenditori che dimostrino di
- "aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila";
- "aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
- "avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila”.
Questi limiti vengono modificati ed aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia in base ai nuovi indici ISTAT.
Il fallimento e le società commerciali
Nella nuova formulazione dell'art. 1 della Legge Fallimentare manca il riferimento alle società commerciali. Nel vecchio testo della legge, invece, questo riferimento era presente e non solo: la L.F. prevedeva espressamente l'assoggettabilità di questa categoria di imprenditori alla procedura fallimentare. Il legislatore della riforma ha posto i limiti di cui all'art. 1 L.F: limiti che possono essere applicati anche alle imprese commerciali. Ciò vuol dire che anche gli imprenditori agricoli o gli enti pubblici che non rientrino nella casistica ex art. 1 L.F., non possono essere assoggettati alla procedura fallimentare.
Il fallimento: lo "stato di insolvenza" come presupposto oggettivo
Abbiamo appena esaminato quali sono i presupposti soggettivi che rendono possibile l'attivazione della procedura fallimentare. Per quanto riguarda il presupposto oggettivo, è necessario che l'imprenditore versi in "stato di insolvenza". L'art. 5 del r.d. n. 267/1942 stabilisce che lo "stato di insolvenza" viene dimostrato attraverso la sussistenza di "inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Si tratta, in particolare, di una vera e propria situazione di "impotenza strutturale" e non solo transitoria che impedisca all'imprenditore di soddisfare in maniera regolare i suoi creditori mediante l'adempimento delle proprie obbligazioni. E' irrilevante, invece, la necessità di provare che le cause del dissesto finanziario ed economico sono da imputarsi alla condotta dell'imprenditore stesso.