Fallimento

Fallimento, la sua chiusura comporta la decadenza degli organi fallimentari


Stando a quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 25135 dello scorso 14 dicembre 2015, la chiusura del fallimento comporta la decadenza degli organi fallimentari e la cessazione degli effetti della procedura sul patrimonio del debitore tornato in bonis. Dunque, il provvedimento che dovesse essere eventualmente emesso dagli organi fallimentari dopo la chiusura della procedura è giuridicamente inesistente per la carenza di potere, e qualsiasi soggetto interessato può far valere tale inesistenza giuridica.

L'opinione della Corte di Cassazione

Stando alla pronuncia della Corte, infatti, la giurisprudenza - dalla quale non vi è ragione di discostarsi, affermano i giudici della Cassazione - ha più volte ribadito che la conclusione del fallimento comporta la decadenza degli organi fallimentari, e la cessazione di qualsiasi effetto della stessa procedura fallimentare sul patrimonio del debitore. Considerato che l'eventuale provvedimento dell'organo fallimentare "decaduto" è inesistente, esso - a differenza dell'atto nullo, i cui vizi sono deducibili solamente con i mezzi di impugnazione che sono stati previsti dal legislatore - "sfugge alla regola della conversione dei motivi di nullità in motivi di gravame, potendo l'inesistenza giuridica esser fatta valere senza limiti di tempo sia in via di azione di accertamento sia in via di eccezione". Pertanto, ricordano ancora i giudici, risulta sempre esperibile l'azione di nullità, che costituisce un'azione ordinaria di accertamento con la quale i soggetti interessati possono domandare di sentir dichiarare, senza limiti di tempo, l'inefficacia degli atti emanati dal giudice al di fuori della sfera delle proprie attribuzioni. Sempre in relazione a tale punto, è da precisare come l'azione di accertamento dell'inefficacia di provvedimenti o di atti inesistenti, debba essere esperita nei confronti della parte interessata, che andrà ad essere individuata nel soggetto nei cui confronti il provvedimento, o l'atto giuridicamente inesistente, ha prodotto i suoi effetti. Di conseguenza, proseguono i giudici, risulta essere del tutto infondata la tesi dei giudici di merito, secondo cui "gli attori avrebbero dovuto citare in giudizio gli autori degli atti dei quali veniva chiesta la declaratoria di inefficacia (ossia il giudice delegato o il curatore fallimentare), in quanto l'actio nullitatis, volta ad ottenere la declaratoria di inefficacia dell'atto giuridicamente inesistente, va esercitata nei confronti del soggetto interessato, che va individuato in colui nella cui sfera giuridica si sono prodotti gli effetti dell'atto impugnato".

L'enunciazione dei principi di diritto

A questo punto, i giudici enunciano i principi di diritto richiamati in apertura di tale approfondimento, secondo cui "la chiusura del fallimento comporta la decadenza degli organi fallimentari e la cessazione degli effetti della procedura sul patrimonio del debitore tornato in bonis; ne deriva che il provvedimento eventualmente emesso dagli organi fallimentari dopo la chiusura del fallimento è giuridicamente inesistente per assoluta carenza di potere e - come tale - ogni interessato può farne valere l'inesistenza giuridica senza limiti di tempo, sia in via di azione di accertamento sia in via di eccezione"; e che, ulteriormente, "l'interessato che intenda esperire l'azione di accertamento per sentire dichiarare l'inefficacia di un provvedimento inesistente deve convenire in giudizio, non gli autori dello stesso, bensì i soggetti interessati, che vanno individuati in coloro nella cui sfera giuridica si sono prodotti gli effetti dell'atto impugnato".


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