Revocatoria Fallimentare

Azione revocatoria fallimentare: funzione, ratio ed effetti


La revocatoria fallimentare – disciplinata dall’articolo 67 della Legge Fallimentare – costituisce un istituto cardine del nostro ordinamento giuridico. L’importanza di tale strumento giuridico è riassunta dalla funzione stessa dell’azione revocatoria fallimentare.

La funzione dell’azione revocatoria fallimentare

L’azione revocatoria fallimentare è sostanzialmente volta a privare di efficacia giuridica eventuali atti compiuti dall’imprenditore/debitore dichiarato fallito nel corso del “periodo sospetto”. L’azione revocatoria fallimentare è finalizzata a privare di effetto gli eventuali atti posti in essere in violazione del principio della par condicio creditorum.

L’azione revocatoria fallimentare viene esercitata dal curatore e deve essere esperita dinanzi al Tribunale che ha dichiarato il fallimento. La proposizione dell’azione revocatoria fallimentare è assoggettata a termini ben precisi: il curatore deve, infatti, proporla entro tre anni dalla dichiarazione di fallimento e, comunque, non oltre cinque anni dal compimento dell’atto. Tali termini sono stabiliti dall’articolo 69 bis della Legge Fallimentare, a pena di decadenza.

Revocatoria fallimentare: gli effetti dell’azione

Con l’azione revocatoria fallimentare, tutti gli eventuali atti di disposizione, i pagamenti e le garanzie che siano state poste in essere dal fallito nell’anno o nei sei mesi antecedenti al fallimento, diventano inefficaci, salvo che l’altra parte provi di non essere a conoscenza dello stato di insolvenza del debitore.

In particolare, per effetto della revocatoria fallimentare, il terzo è chiamato a restituire quanto aveva ricevuto dall’imprenditore/debitore. Nello stesso tempo, il terzo viene ammesso al passivo fallimentare per recuperare il suo eventuale credito.

Se, poi, l’azione revocatoria fallimentare ha ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario o se abbia ad oggetto rapporti continuativi o reiterati, il terzo dovrà restituire “una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso” (art. 70 Legge Fallimentare). Resta comunque salvo – come previsto dall’articolo 70, 3° comma L.F.“il diritto del convenuto d'insinuare al passivo un credito d'importo corrispondente a quanto restituito”.

Revocatoria fallimentare: gli atti “colpiti” dall’azione

E’ importante sottolineare che non tutti gli atti posti in essere dal fallito nel corso del “periodo sospetto” possono essere colpiti dall’azione revocatoria fallimentare. Il terzo comma dell’art. 67 L.F., al riguardo, individua alcune tipologie e categorie di atti sottratti all’azione revocatoria fallimentare. Il citato articolo stabilisce che non possono essere assoggettati a tale azione, tra gli altri, “i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso”, “le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca; “d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria”.

La natura dell’azione revocatoria fallimentare

La natura e la ratio dell’azione revocatoria fallimentare è stata a lungo dibattuta in dottrina e in Giurisprudenza. Una parte della dottrina ritiene, infatti, che l’azione revocatoria fallimentare sia una species del genus dell’azione revocatoria ordinaria disciplinata dall’articolo 2901 del codice civile. La revocatoria fallimentare, in particolare, si differenza dalla revocatoria ordinaria sul piano meramente processuale: molto più semplice è la prova che deve essere fornita e molto più ampi e pregnanti sono gli effetti legali conseguenti alla pronuncia di revoca.

Una parte della Giurisprudenza, inoltre, abbracciando la “teoria indennitaria” ritiene che la revocatoria fallimentare (così come la revocatoria ordinaria) presupponga l’esistenza di un danno che, secondo alcune pronunce giurisprudenziali, potrebbe essere la mera lesione del principio della par condicio creditorum. La “teoria indennitaria” è appoggiata dalla maggior parte della dottrina che ritiene che, nella revocatoria fallimentare,  il danno non debba essere inteso "in senso stretto": molti ritengono, infatti, che tale azione ben potrebbe andare a “colpire” atti che, di per sé, non solo non sono dannosi ma sono anche vantaggiosi. In questo senso, la vera ratio dell’istituto della revocatoria fallimentare sarebbe da ricercarsi nella necessità di redistribuire le perdite causate dall’insolvenza del fallito a tutti coloro che hanno potuto trarre vantaggio dagli atti di disposizione patrimoniale eseguiti nel “periodo sospetto” pur essendo consapevoli dello stato di insolvenza in cui versava l’imprenditore/debitore.


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