Studi e Ricerche

Pandemia e crisi d'impresa, in crescita l'insufficienza patrimoniale aziendale


A fine 2020 lo scenario economico mostrerà criticità legate alla prolungata pandemia e ai lockdown collegati ad essa, con un aumento esponenziale della quota di società in condizioni di insufficienza patrimoniale. A lanciare l'allarme, con la pubblicazione del rapporto "L'economia delle regioni italiane", è la Banca d'Italia che nel documento evidenzia una crescita delle crisi d'impresa connesse all'emergenza sanitaria globale e agli effetti delle misure di protezione assunte a livello nazionale (nonché agli impatti che il Covid ha avuto sull'export per via degli atti assunti anche dagli altri Stati e ovviamente a causa del crollo della domanda estera). Lo stato di crisi d'impresa, si legge nel rapporto, coincide sostanzialmente con la presenza di un patrimonio netto inferiore ai limiti di legge, la cosiddetta sottocapitalizzazione. Le misure di contenimento della crisi finora adottate dal Governo Conte avrebbero, secondo la Banca d'Italia, mitigato gli effetti della pandemia sull'economia, generati in particolare dalla contrazione della domanda interna, "poiché, in assenza di quegli interventi, prosegue il documento, "il tasso di sottocapitalizzazione sarebbe andato ben oltre il 14 per cento". La ricerca della Banca d'Italia aggiunge che in base agli ultimi dati disponibili riguardanti le società di capitali, la sottocapitalizzazione risultava più diffusa nel Centro e nel Mezzogiorno, dove la quota di imprese in stato di crisi era pari all'8 per cento, contro poco più del 6 al Nord (7,2 a livello nazionale). Recenti analisi mostrano che, in molti casi, il manifestarsi della sottocapitalizzazione anticipa la conclusione dell'attività di impresa. Infatti, tra le società di capitali attive nel periodo 2011-15, circa il 60 per cento di quelle entrate in stato di crisi risultava non più operativo a tre anni di distanza. Al di la delle prospettive per le crisi d'impresa, il rapporto sull'economia delle regioni italiane evidenzia come nel corso dell'anno corrente una quota ingente di imprese industriali, compresa fra il 61% nel Mezzogiorno e il 78% nel Nord Ovest, abbia incrementato l'utilizzo del lavoro agile rispetto al 2019, anche se questa 'rivoluzione' sembra non aver coinvolto più del 20% degli occupati, dato che riguarda almeno un 70% delle aziende. Inoltre, dal rapporto emerge come alle riaperture post lockdown, la ripresa delle attività aziendali sia stato solo parziale e 'a livelli'. Nei mesi estivi le valutazioni delle imprese manifatturiere sul livello degli ordini sono infatti progressivamente migliorate in tutte le aree, ma il dato di settembre era comunque ancora molto al di sotto dei livelli registrati prima dell'emergenza, e questo soprattutto nel Nord Ovest dove il recupero appare ancora più lento che nel resto del Paese. Un'altra istantanea scattata dagli analisti di via Nazionale mostra che nel primo semestre 2020 i due quinti delle imprese industriali italiane indicano il calo della domanda interna come il fattore che ne ha maggiormente penalizzato l'attività. L'indebolimento della domanda estera ha colpito circa la metà delle aziende del Centro Nord, mentre appare meno rilevante per quelle del Mezzogiorno. Con la crisi dovuta al Coronavirus, infinse, a rimetterci sarebbe stato in particolare il lavoro femminile. Il primo bilancio, ancora del tutto parziale, degli effetti che il lockdown primaverile ha avuto sul mercato del lavoro contabilizza, infatti, tra secondo trimestre 2019 e 2020, 470 mila donne occupate in meno, per un calo nell'anno del 4,7%. Su 100 posti di lavoro persi (in tutto 841 mila), quelli femminili rappresentano il 55,9%; al confronto, secondo il focus stilato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, l'occupazione maschile ha dato prova di maggior tenuta, registrando un decremento del 2,7%. L'industria, dove il lavoro maschile è prevalente, ha per ora retto di più, mentre sono stati soprattutto i servizi, tradizionale bacino di impiego femminile, a pagare il costo più caro: è il caso del sistema ricettivo e ristorativo, dove le donne rappresentano il 50,6% dell'occupazione, e dei servizi di assistenza domestica, dove il lavoro femminile arriva all'88,1%. Entrambi hanno contribuito in maniera decisiva al negativo saldo occupazionale, determinando il 44,2% delle perdite complessive dei posti di lavoro, e ben il 51% con riferimento a quelli femminili.