Fallimento

Intervista al Dott. Renato Rordorf sulla riforma della disciplina della crisi di impresa e dell'insolvenza


Stante l'ampia portata dell'intervento previsto dalla legge delega n. 155/2017, volto a riformare la disciplina della crisi di impresa e dell'insolvenza, riportiamo oggi l'intervista al Dott. Renato Rordorf, presidente della commissione istituita ad hoc dal Ministero della Giustizia chiamata a dare esecuzione ai principi direttivi della legge delega.  
 
Finalmente, dopo più di 70 anni, è intervenuta la tanto attesa riforma organica relativa alla disciplina delle crisi di impresa e dell’insolvenza che vedrà una rivisitazione completa di tutta la materia. Secondo Lei, c’è il rischio che la delega possa non trovare concreta attuazione? Nella pratica quali potrebbero essere i motivi reali legati alla mancata attuazione dei decreti delegati dopo che l’esecutivo ha richiesto il loro completamento in maniera accelerata prima della fine della legislatura? 
 
È difficile rispondere a questa domanda perché le incognite sono tante e dipendono da quello che accadrà dopo la fine dell’attuale legislatura. L’esecutivo ha inizialmente coltivato l’idea di emanare i decreti delegati prima della fine della legislatura, ed in questa prospettiva è stato chiesto alla commissione istituita dal Ministro della Giustizia, che io ho presieduto, di portare a termine in tempi molto stretti un lavoro che avrebbe richiesto sicuramente un tempo maggiore per essere meglio messo a punto in ogni dettaglio. 
La speranza è che ci si possa ritornare sopra per perfezionare il testo. Purtroppo, però, nonostante l’accelerazione non si è fatto in tempo, per ragioni tecniche e politiche. I tempi erano davvero stretti ed è subentrata la decisione del Presidente della Repubblica di sciogliere il Parlamento entro la fine dell’anno, prima di quando si fosse inizialmente immaginato. 
Oggi non è realistico pensare che entro il 4 marzo, giorno in cui ci saranno le elezioni, il Governo possa emanare i decreti delegati, anche perché è necessario il previo parere delle commissioni parlamentari competenti. 
La delega resta comunque operativa perché il termine entro il quale deve essere esercitata è 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge delega, cioè entro il prossimo 14 novembre. Non sappiamo però quale sarà il prossimo governo, chiamato a decidere se attuare o meno la delega, o se e come eventualmente modificare il testo dei decreti delegati già elaborato dalla commissione. Queste sono previsioni oggi impossibili. 
In caso di esercizio della delega e di emanazione dei decreti delegati sarebbe comunque opportuno prevedere un’ampia vacatio legis, di almeno un anno, per l’entrata in vigore dei nuovi testi legislativi così da consentire ulteriori aggiustamenti e perfezionamenti di dettaglio. 
 
Come mai secondo lei questa richiesta di accelerazione così sfrenata sul finire della legislatura quando la legge, dopo l’approvazione da parte della Camera, è stata al Senato per diverso tempo prima dell’approvazione e la scadenza della legislatura era cosa nota. 
 
Purtroppo ho l’impressione che questo sia un limite generale della nostra vita politica. Che vi sia, cioè, una generale difficoltà nel programmare in modo sufficientemente lungimirante i tempi degli interventi legislativi. In effetti il passaggio della legge delega tra la Camera e il Senato è stato lentissimo, anche a causa delle tensioni politiche che hanno assai rallentato soprattutto il lavoro del Senato, pur non riguardando in particolare questa specifica iniziativa legislativa. Fino all’inizio dell’estate del 2017 le previsioni più attendibili erano nel senso che non si sarebbe arrivati all’approvazione della legge delega anche da parte del Senato. Poi invece l’approvazione in extremis c’è stata e per un po’, come dicevo, il Governo ha sperato di avere il tempo per completare anche l’iter di approvazione dei decreti delegati. Purtroppo non è andata così. 
La necessità di una riforma fallimentare è tuttavia indubbia e, giacché un lavoro in proposito è stato fatto, sia pure perfezionabile, ci sarebbero valide ragioni perché lo si voglia ancora portare a termine. 
Anche nella peggiore delle ipotesi, ossia se si volesse azzerare tutto il lavoro fatto e ricominciare da capo, credo che i testi ora elaborati potranno rappresentare un valido punto di partenza.
Sarà comunque valsa la pena di averli scritti.
 
Con l’eliminazione del termine “fallimento” e la sostituzione di esso con l’espressione “liquidazione giudiziale”, Lei ritiene si sia riusciti davvero a togliere quel senso di negatività, di discredito sociale che avvolgeva di fatto la terminologia precendente?
 
La parola fallimento ha sicuramente una valenza un po’ catastrofica. Le modifiche terminologiche non bastano certo  a cambiare il mondo, ma le parole sono importanti perché riflettono la cultura e la mentalità corrente di una società. Il modo in cui il legislatore adopera le parole non è perciò mai indifferente, ed in questo caso era necessario cercare di togliere o almeno attenuare la forte valenza negativa insita nella parola fallimento.
In questo senso, del resto, si sono mosse anche gran parte delle legislazioni europee.  
 
Secondo Lei, come mai una riforma così organica della disciplina in oggetto non ha preso in considerazione anche una modifica degli aspetti penali ad essa collegati? È stata prevista, infatti, la continuità delle fattispecie criminose legate al fallimento.
 
Non c’è dubbio che anche l’uso dello strumento penale e la proporzionalità delle sanzioni penali inerenti ai fenomeni della crisi e dell’insolvenza imprenditoriale andrebbero ripensati in chiave più moderna, alla luce delle modifiche che si intendono apportare alla disciplina civilistica di tali istituti.
E’ stata una scelta politica del governo, forse non del tutto irragionevole, di rinviare nel tempo questa operazione per non rendere sin da principio troppo impegnativa la prospettiva di una riforma organica del diritto della crisi di impresa, evitando gli aspri contrasti che da sempre accompagnano la materia penale. Credo vi fosse piena consapevolezza della necessità di porre mano anche ad un intervento riformatore in campo penale, ma si è scelto di partire prima dalla modifica della disciplina civilistica, salvo quei minimi interventi tecnicamente necessari nell’immediato anche sul piano penale. Alla disciplina penalistica si dovrebbe provvedere in un momento successivo, alla luce di quanto già fatto in ambito civile.  
  
Stante l’ampiezza delle tematiche su cui intervenire la riforma in questione, quali ritiene siano i punti più rilevanti individuati dalla legge delega? 
 
Un punto molto importante sicuramente è costituito dal fatto stesso che si è inteso procedere ad una riforma organica e sistematica dell’intera legge fallimentare. Questo è’ molto importante perché quella legge ha subito negli anni interventi e riforme, alcune molte ampie come quella del 2005/2006, ma sempre a “pezzi e bocconi” con la conseguenza di non avere una normativa sufficientemente organica, coerente e sistematica. 
Entrando più nel dettaglio, credo che sia pacifico che una delle novità di maggiore impatto sia costituita dalle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, di cui peraltro si parlava già da diversi anni.
È un passaggio importante che, se funzionerà, consentirà di realizzare un rapporto fisiologico tra le due anime che coesistono nelle procedure concorsuali, l'anima liquidatoria, da un lato, che focalizza tutta l’attenzione unicamente sull’interesse dei creditori a conseguire il miglior risultato possibile dalla vendita dei beni del debitore, e dall’altro lato l’anima risanatrice e conservativa dei persistenti valori dell’impresa.
Abbiamo visto in questi ultimi anni di riforme emergenziali l’alternarsi di interventi tendenti a favorire maggiormente ora soluzioni conservative dell’impresa ora soluzioni più marcatamente liquidative.
Le procedure di allerta, se funzioneranno, dovrebbero rappresentare la chiave di svolta di questo sistema. La conservazione dell’impresa, quanto meno nel medio periodo, può infatti soddisfare anche l’interesse dei creditori solo a condizione che la crisi venga affrontata molto tempestivamente. La possibilità di intercettare precocemente i sintomi della crisi permette di intervenire in modo consapevole, conservando la continuità dell’impresa là dove ha senso farlo ed avviandola invece alla liquidazione dove non ci sono le condizioni necessarie per conservarla. 
Queste procedure, oltre che di allerta, sono anche di composizione assistita: hanno anche una valenza di sostegno nei confronti dell’imprenditore nella fase iniziale della crisi, fase in cui si spera che essa sia ancora reversibile. Un sostegno particolarmente importante per le piccole e medie imprese che spesso non hanno al proprio interno le risorse e le capacità necessarie per poter gestire la crisi al meglio. 
Un altro aspetto rilevante della riforma, di natura sistematica, risiede nella maggiore attenzione riservata alle intersezioni tra il diritto fallimentare da un lato e il diritto societario dall’altro. 
L’impianto della nostra legge fallimentare sembra ancora concepito prevalentemente per un imprenditore individuale, mentre ben sappiamo che oggi i fallimenti e le procedure concorsuali riguardano prevalentemente le società. Il diritto societario disciplinato dal codice civile, invece, sembra prevalentemente concepito per società in bonis. Questi due tronconi di ordinamento giuridico non dialogano del tutto tra di loro.  Perciò si è cercato di assicurare un maggior grado di coerenza tra gli istituti del diritto societario e quelli del  diritto della crisi d’impresa. 
In attuazione di quanto previsto dalla legge delega, la commissione ha elaborato due decreti delegati, uno di maggiori dimensioni che costituisce il codice della crisi e dell’insolvenza, destinato a sostituire la legge fallimentare e quella sul sovraindebitamento; il secondo volto invece ad apportare modifiche ad alcune disposizioni del codice civile in materia societaria. 
 
Il meccanismo delle misure di allerta è sicuramente la novità che maggiormente viene percepita. Ritiene che questo meccanismo sia realmente idoneo a far emergere tempestivamente dallo stato di crisi l’imprenditore, anche se è stato previsto che il collegio debba informare il pubblico ministero nel caso in cui alla scadenza dei sei mesi non vengano individuate misure idonee a superare la crisi. Lei ritiene che questa integrazione, intervenuta durante l’iter parlamentare, possa vanificare quello che era l’intento delle misure di allerta?  
 
Spero di no. Questa previsione non era nel progetto di legge delega elaborato originariamente dalla commissione ministeriale, che aveva prefigurato procedure di allerta e composizione della crisi totalmente stragiudiziali, lontane il più possibile dal tribunale, salvo che per l’eventuale necessità di provvedimenti protettivi volti ad arrestare le esecuzioni in corso. L’idea era che queste procedure non solo fossero il più possibile confidenziali – e questo rimane fermo anche nell’attuale testo – ma anche stragiudiziali, per motivi di ordine soprattutto psicologico. 
Le maggiori resistenze che si sono manifestate nel mondo imprenditoriale nascono dal timore che l’emersione anticipata dalla crisi, se conosciuta all’esterno, possa rappresentare un fattore di aggravamento della crisi stessa, e che esse siano viste quasi come un’anticamera del fallimento. Una delle preoccupazioni dell’imprenditore in crisi, infatti, è quella di perdere il controllo della propria impresa. Quindi, se si vuole che queste procedure abbiano successo e che gli imprenditori vi si rivolgano con fiducia, occorre attenuare questo tipo di preoccupazione. Perciò era parso alla commissione che fosse preferibile tenerle il più possibile al di fuori dell’ambito giudiziario. 
Governo e Parlamento, in sede di approvazione della legge delega, hanno però operato una scelta diversa, mossi dalla preoccupazione che, quando non fosse risultato possibile addivenire ad un accordo con i creditori per realizzare la ristrutturazione dei debiti d’impresa, le procedure sarebbero rimaste incompiute. E quindi è stata ritenuta necessaria in tal caso l’entrata in scena del P.M.
 
Tra i principi generali della riforma vi è una necessaria specializzazione del giudice delegato. E’, infatti, stato auspicato un possibile accorpamento di sezioni fallimentari di alcuni tribunali minori con quelle di altri Tribunali maggiori. La paventata chiusura di sezioni fallimentari più piccole ha riscosso molte critiche. Cosa pensa al riguardo? 
 
Questo è uno dei temi più caldi e politicamente più controversi. Io sono convinto che vi sia bisogno di specializzazione in questo campo. L’organizzazione giudiziaria in Italia, per quel che riguarda la magistratura è ancora tendenzialmente aspecialistica. Può accadere che nel corso della sua carriera un magistrato si trovi a doversi occupare di materie che hanno poco a che fare le une con le altre. A mio avviso, invero, occorre invece una formazione che garantisca una maggiore competenza specialistica. La complessità dei profili giuridici è divenuta tale da non poter prescindere da un adeguato livello di specializzazione di qualsiasi operatore giuridico, che sia avvocato o magistrato. Nella materia del diritto della crisi di impresa vi sono tantissime decisioni da prendere nelle quasi si intrecciano fortemente profili giuridici, profili economici e profili aziendalistici: tutti aspetti che possono esser affrontati professionalmente solo da chi si sia immerso in quella specifica realtà a tempo pieno e con sufficiente approfondimento. 
Aggiungasi che nella materia in esame la funzione giurisdizionale è in buona parte svolta in forma collegiale. In tribunali di piccole dimensioni può magari accadere che vi sia un giudice delegato adeguatamente specializzato, ma lo è solo lui, e questo compromette la collegialità delle decisioni. Per questa ragione è necessario che in una materia così specialistica operino tribunali di dimensione adeguate. 
La commissione ministeriale, peraltro, ha lavorato cercando di ridurre al minimo il numero dei tribunali esclusi dalla competenza relativa alla gestione della crisi e dell’insolvenza. Vorrei sottolineare che il sistema funziona su 3 fasce: per le grandi imprese i tribunali competenti sono quelli sede delle attuali sezioni specializzate in materia d’impresa; per la fascia mediana, che comprende le imprese oggi soggette a fallimento, sono stati individuati tribunali di maggiore dimensione sulla base di parametri che ne garantiscano l’adeguata specializzazione; infine  per le insolvenze minori, riguardanti i non imprenditori e gli imprenditori minori che oggi non sono assoggettabili a fallimento, la competenza resta distribuita tra tutti i tribunali attualmente esistenti.
 
La legge delega è intervenuta anche in merito alla modalità di liquidazione dei beni. E’ stato previsto il c.d. sistema common, poi non inserito nelle bozze dei decreti delegati. 
 
Il sistema common, previsto nella legge delega, ha incontrato nel corso dei lavori della commissione per l’elaborazione dei decreti non poche difficoltà. Se ne è parlato con il Ministero delle Finanze, con l’Agenzia delle Entrate e con la Banca d’Italia, oltre che con il MISE e sono emerse resistenze. Anche la Banca di Italia non sembra convinta che questo sistema sia ancora del tutto messo a punto. Il Ministero delle Finanze ha ravvisato problemi in ordine alle necessarie coperture finanziarie. 
Perciò allo stato, nelle bozze di decreto delegato elaborate dalla commissione, il sistema dei Commons non figura. 
 
 

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